Giuditta

Torbida e cruenta fu la vita di Giuditta Guastamacchia che fu processata e giustiziata dalla Gran Corte della Vicaria che aveva sede nel tribunale di Castel Capuano.

Giuditta subì le lusinghe di un prete, Don Stefano d’Aniello, che di religioso aveva veramente poco, dando vita ad una tresca. Per nascondere il loro illecito rapporto, il prete, le fece sposare un nipote di appena 16 anni. Stanco della situazione, il giovane decise di tornare a vivere a Terlizzi, con l’intenzione di denunciare i due adulteri.

A questo punto Giuditta col padre ed altri due complici, decisero di mettere fine alla vita del marito. Fecero tornare il povero malcapitato a Napoli con la scusa di una riappacificazione con la moglie e una sera, lo strangolarono. Per evitare che il cadavere fosse trovato e riconosciuto, con l’aiuto di uno dei complici che di professione era chirurgo, lo fecero a pezzi e diedero ad ognuno parte del corpo macellato per farlo disperdere nelle cloache pubbliche.
Uno dei complici, il barbiere, fu però fermato dalla guardia reale che nel controllo di routine, lo trovò col macabro bottino. Questi, dopo un estenuante interrogatorio, confessò il crimine e i suoi complici. Giuditta, il padre e il prete, intuendo che qualcosa era andato storto, presero la fuga, ma furono rintracciati e fermati sulla strada per Capodichino. Il processo fu breve e tutti furono condannati alla forca, tranne il prete, l’unico che pur essendo presente, non aveva di fatto, toccato il nipote per ucciderlo. Era il 19 Aprile del 1800.

Giuditta e il padre, più di tutti furono puniti. Dopo l’impiccagione, testa e mani  furono amputate e messe in mostra sulle mura della Vicaria dietro i graticci di ferro, secondo quanto prevedeva la legge per quel genere di delitto. Da quel momento nel Castello aleggia in quel giorno il fantasma della donna chiamata “il fantasma degli avvocati o della Vicaria”, che cerca pace e assoluzione.